giovedì 14 luglio 2011

Voglio una scuola che insegni a voler vivere felici insieme agli altri!

Sufficiente, buono, ottimo, 6/10, 8/10, 10 e lode! E’ davvero questo che vogliamo dalla scuola, una sequela di numeri da appioppare a un’altra serie di soggetti che devono imparare da insegnanti che impartiscono istruzioni?
Oggi la scuola, nonostante faccia posto a progetti tenuti da psicologi, in cui si parla di emozioni, aspettative, comunicazione, in vari gradi e modalità, è ancora molto legata alla performance dell’alunno, in funzione dei programmi da svolgere e al livello d'istruzione che ad una certa età bisogna raggiungere.
Insomma, la scuola è immersa nella natura narcisistica della nostra società, sempre più attenta all'ottimale performance individuale.
Un'alternativa potrebbe essere quella di iniziare a considerare la classe come un gruppo di persone con diverse peculiarità espressive e cognitive e pensare a instaurare un clima di collaborazione tra gli individui.
La conflittualità che spesso si trova nelle classi è causata dall’alta competitività dei discenti, che fanno a gara per compiacere la maestra, nel darle per primi una penna rossa che chiede in prestito, oppure nel fare i compiti e le verifiche meglio degli altri. In queste classi si assiste alla formazione di gruppetti in cui c’è solidarietà nella lotta contro gli altri. Si forma il “noi” del gruppetto, ma non il “noi” della classe, che sarebbe foriera del “noi” della comunità di appartenenza e poi della società in senso lato.
È in questo clima competitivo che si attuano progetti scolastici che vogliono insegnare “La solidarietà”, “Il rispetto delle regole”, “Il senso civico” ecc.
Premettendo che questi progetti sono molto interessanti e spesso ben fatti, il risultato è che rimangono delle “oasi d’insegnamento” che sono destinate a rimanere isolate, nel deserto della fretta e della fredda corsa allo svolgimento del Programma Ministeriale.

La solidarietà è essenziale in una società:
come si può parlare di solidarietà nel progetto “Aiutiamo il Burundi” e poi non essere in grado di insegnare a un bambino come ascoltare il compagno di banco con cui sta litigando. La solidarietà quindi, si limita all’elargizione di somme di danaro, senza avere una coscienza intima di cosa sia aiutare l’altro, comprendendolo, prima di tutto.

Il rispetto delle regole è altrettanto importante nella vita quotidiana della classe, ma anche nella vita in generale. È importante dunque mediare le regole in modo che non siano percepite come coercitive e foriere di privazioni, piuttosto come possibilità che ognuno ha di esprimere la propria libertà. Utile a questo scopo potrebbe essere un lavoro volto all' interiorizzazione delle regole attraverso delle drammatizzazioni, che facciano vivere la situazione al bambino, oppure attraverso discussioni, se siamo davanti a individui più grandi. Purtroppo le regole vengono mediate come imposizioni, perché sono da sempre vissute come tali dagli stessi insegnanti.

Il senso civico:
nei corridoi delle scuole spesso si assiste alla scena del cappotto per terra che viene calpestato da tutti i bambini che passeggiano durante la ricreazione o che si trovano a passare da lì. Alla domanda dell’insegnante: “Perché non lo raccogli?”, c’è l’ovvia risposta: “Non è mio!”.
La stessa cosa accade se per terra c’è una penna, un quaderno, uno zaino, un pezzo di carta ecc.
Come si pretende di vedere un bambino raccogliere un cartoccio di carta non suo, se è stato abituato a lavorare da solo, per conto suo, pensando alla propria performance, senza mai aver sperimentato la collaborazione nell’apprendimento e nei vari contesti che vive?

Tornando alla natura narcisistica della nostra società, in cui la scuola è immersa e sommersa, vediamo bambini e adolescenti oberati d’impegni: calcio, pianoforte, danza, basket, insomma tutte attività in cui la performance individuale viene premiata. Anche negli sport di squadra c’è una focalizzazione nella performance individuale, a scapito di quella di gruppo.

Dunque, la scuola non è certo la causa della natura narcisistica della nostra società, ma potrebbe essere un luogo in cui si rimette in discussione questa natura, andando a contrastare le tendenze ad isolare il corpo dalla mente. Per corpo non intendo certamente il “fisico”, ma “corpo” come “luogo” in cui si esprimono i bisogni e i desideri naturali dell’essere umano, pensante e senziente: “corpo” come interfaccia tra me e l’altro, al quale posso esprimere la mia intimità.

Pensiamo, dunque, a fare stare i nostri bambini e adolescenti l’uno davanti all’altro, guardandosi, ascoltandosi, capendosi, aiutandosi nella gestione dei conflitti e nel bisogno/desiderio di comunicare agli altri la loro voglia di vivere insieme, una vita felice.

C’è un solo problema:
affinché i bambini e gli adolescenti imparino a stare l’uno davanti all’altro, esprimendo reciprocamente i propri bisogni e sentimenti, è necessario che noi adulti iniziamo a farlo per primi!

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